ROOM 115: Panchakarma in Ayurvedic hospital.
Potrei definire questo percorso: un soggiorno disintossicante e ringiovanente;
ma sarebbe molto riduttivo definire cosí un Panchakarma e rischierei di farvi cadere in molteplici errori di comprensione.
Attualmente, purtroppo, circolano molte informazioni errate sull’Āyurveda e le sue pratiche, ma le più sbagliate e pericolose riguardano senz’altro la terapia del Panchakarma.
Potete trovare la perfetta descrizione in un articolo dei miei maestri: https://www.ayurvedicpoint.it/medicina-ayurvedica/209-panchakarma-le-cinque-azioni-della-salute
Io invece vi racconterò la mia esperienza:
“..Non ho bisogno di chiudere gli occhi, le parole prendono forma nella mia mente più veloci che mai.
Sono in quella stanza in Kottappuram roud e poi di nuovo qui.
Sono sul letto ricamato in bianco e nero con le labbra a mezza luna e gli occhi sognanti.
Stanza 115.
Ero arrivata presto.
Scesi in India dopo 3 anni e il primo respiro provocó un pianto convulso, come un bambino che viene al mondo.
(…)
Il taxi dall’ aereoporto aveva guidato senza tregua tra slalom azzardati e frenate brusche.
Il suono dei clacson mi dava il benvenuto.
Il profumo di sandalo inebriava i miei sensi storditi dal viaggio e dall’euforia.
(…)
La clinica era essenziale. Pavimenti color terracotta. Al primo piano la luce di una grande finestra delineava il lungo corridoio.
Il personale con camice a quadri rosse e blu e pantaloni di blu cordinati, sembravano lo staff di un fast food.
Infermieri e terapisti indaffarati salivano, scendevano, uscivano da porte ed entravano in altre. Api sorridenti nel loro alveare sotto un’unica regina : l’Āyurveda.
Nell’attesa arrivasse il dottore riposavo .
Il sole si faceva spazio tra le zanzariere, morbido mi accarezza la pelle .
La ventola girava, c’erano 30 gradi e il fresco si mescolava ai raggi caldi dandomi una meravigliosa sensazione sulle gambe scoperte.
Il Dottore e la Dottoressa arrivarono poco prima di pranzo.
A quell’ora la 115 giá mi assomigliava.
(…)
Parlammo di problemi mestruali, dei chili persi in questi due anni.
Parlammo della mia scapola sinistra e di quel mare di sentimenti in tempesta.
Delle radici tagliate. Del dolore lacerante . Della mente disiorentata. Del vuoto: Akash.
Qualche ora dopo ricominciai da capo con una psicologa vestita da bambina.
Ascoltò con attenzione muovendo di tanto in tanto la testa a destra e a sinistra, poi lasciò la stanza sorridendo:
< Non preoccuparti, tutta colpa di quelle radici, tranquilla, sono andate.>
Secondo lei dovevo aver capito tutto.
Col tempo capíí.
Le ore che anticiparono l’ inizio della terapia mi sentii grata a me stessa di essere li.
Mi sentii grata a Ganesha che avevo pregato quasi ogni giorno negli ultimi mesi.
A mio marito, ai miei genitori e agli amici, che come fantasmi benevoli nel buio erano sempre stati con me.
Il pomeriggio mi venne illustrata la terapia:
6 am Medicina
7 am The
8 am Colazione
10 am Trattamento al corpo
12 am Pranzo
3 pm The
4 pm Trattamento alla testa
5 pm Medicina
7 pm Medicina
8 pm Cena
8,5 pm Medicina
9 pm Medicina
Il Panchakarma comprende un insieme di cinque trattamenti terapeutici somministrati al paziente per la più profonda e completa disintossicazione del corpo:
Nasya, Vamana, Virechana e Vasti sono i piu comuni.
La tossine si accumulano nelle livello fisico, mentale e quello piú sottile dalla somma delle vite passate, dai genitori, dalla società, da una dieta impropria, da uno stile di vita improprio e dal vivere senza consapevolezza . Nella terapia possono susseguirsi le cinque azioni oppure ne viene selezionata una o piú, idonee alla situazione del paziente.
Prima di ogni azione il paziente viene preparato con una dieta leggera, trattamenti fisici e medicine selezionate agli obbiettivi e disturbi del paziente.
Un percorso di questo tipo, con un sistema medico diverso da quello che conosciamo necessita di estrema fiducia e collaborazione da parte del paziente.
Fidarsi e non fare resistenza. Fidarsi, la mia prima scommessa.
Non mi fidavo piu di nessuno. Qui, fu difficile non farlo.

GIORNO 1
Jisha si presentó con una grossa scatola di plastica bianca, il quaderno rosso sottobraccio e la bilancia nella mano sinistra.
Avremmo ripetuto quel rituale ogni mattina:
Pressione, ossigeno, temperatura e peso. Sottopeso. Gli altri valori nella norma.

Entrai nella stanza “ Panchakarma n°5 ” e Jisha mi seguiva , attenta.
Ad attenderci le terapiste, il completo coperto da un grembiule a quadri bianchi e rossi. Il droni in legno scuro, lucido.
Le dispense colme di oli e intrugli come fosse un emporio antico.
Un immagine sovrannaturale, dove i disegni di polvere danzavano al filtrare del sole da un angolo in alto di una piccola finestra.
Un sogno sbiadito e rallentato.
Denudata dagli abiti e dai gioielli, mi preparavo a togliere il pudore dall’ anima e lasciare a quelle donne il compito di rimettere insieme i miei pezzi.
La mia pelle chiara, malata, dinnanzi ai loro colori.
Mi trattavano con cura, anticipando con l’ appellativo ” Madame ” ogni richiesta di un mio movimento.
Mi sentivo bene, come se quelle sconosciute avessero davvero a cuore le mie parti stracce che mi trascinavo dietro dal continente occidentale.
Il sorriso da li a poco tornó.
Quella ruga d’espressione insopportabile mi pareva più tollerante del solito.
La differenza stava nell’ indossare o meno la maschera gioiosa, ma era tutto vero:
la ruga, il sorriso, il benessere e l’ amore che avvolgeva quella fotografia.
Salíí sul lettino di legno, sostenuta da entrambe le braccia, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno.
Mi lasciai andare all’olio caldo che mi scivolava sulle tempie col ritmo scandito di una tortura.
Sentivo tutto ció che accadeva dentro di me.
Sentivo la paura che correva veloce cercando una via d’uscita e sbatteva contro muri e membrane.
L’ ansia che saliva fino alla gola e tornava al suo posto sul cuore, oscurandone la forma e il colore. Avrei voluto urlare.
Sentivo la testa immobile, incollata al droni , mi sembrava di non respirare.
Tutto quello che in questi mesi, anni, avevo ingoiato era esattamente li, non era andato da nessuna parte.
Non scappai.
Apri gli occhi una decina di volte, dovevo implorare aiuto. Cercai la comprensione nello sguardo della dottoressa. La trovai.
Capiva. Quando la incontravo mi facevo forza: < Fidati!> Mi dicevo.
Duró 40 minuti.
Sentivo l’ odore affumicato dell’ olio mescolato all’ umiditá e all’ incenso che bruciava per Shiva e Dhanvantari.
Nella doccia una bacinella con un piccolo bricchetto. Jisha mi chiese di sedermi e mi lasciai lavare come una bambina.
La dolcezza di quei pochi minuti mi accompagnerá per sempre.
Mi sentivo curata come mai nella vita. Tornando in camera sentivo la mia pelle morbida e la mente finalmente in silenzio.
(…)
Pranzai e conobbi gli altri pazienti. Ognuno una storia, tutti la stessa clinica.
Quelle ore sarebbero diventate il momento del nostro svago.
Avremmo preso confidenza nei giorni a seguire. Karma cosí diversi eppure una complicitá esilerante.
Qualcuno in disparte, ci piaceva osservarlo e inventarci storie sulla sua vita.
La sala da pranzo e il terrazzo: il terrazzo accoglieva le nostre serate “Papaya”, quando qualcuno nelle ore libere sgattaiolava fuori e andava dal fruttivendolo.
Giovanni è un fotografo sulla sessantina, Maria una divertente napoletana, Jhon un lord che scappava in Thailandia.
Margaret un innocente commessa che aveva avuto una vita avventurosa.
Eva e Lorenzo, una dolce e stabile scommessa di felicitá.
Carlo un fanatico di Ferrini e sua sorella spirituale, una bella donna con gli occhi smarriti.
La coppia di signori indiani curiosa, quando mi incontravano da sola mi riempivano di domande, sempre sorridendo e scrollando la testa.
Terry, una signora canadese che non usciva quasi mai dalla camera, poi, d’ improvviso te la ritrovavi sul balcone con i suoi grandi occhiali neri. Si lamentava che non poteva fare nulla, né leggere, né scrivere: il Netratarpana* agli occhi la costringeva a svolazzare per ore, vestita da mosca, senza poter esporsi alla luce.
< Grandi risultati! > Diceva e io le credevo.
C’erano poi le sorelle indiane : due lunghe trecce grigie oscillavano a ritmo del loro passo; pendevano verso destra, dove una si appoggiava sul bastone.
Dare l’ età a una signora indiana non é cosa facile. Avevo scommesso sui 70, c’é chi diceva meno.
Camminavano lungo il vialetto fino alla strada e ritorno, l’unico tragitto consentito per sgranchirsi e sperare di non afflosciare tutta la muscolatura in quella permanenza, ma non era di certo questo il problema delle vecchie signore, piuttosto di chi voleva perder peso.
Loro erano al piano di sotto, quello che pareva un vero ospedale, piú cupo, più silenzioso.
A quel piano c’ era anche il signore indiano che dimenticava sempre il telefono.

Arrivava a cena pe
r ultimo, vestito con un doti keralese lungo, una camicia di lino e gli occhiali che gli davano un aria da uomo d’affari.
Spesso rimaneva poco cibo nelle pentole.
Il cibo era leggero e noi italiani si sa, siamo cresciuti con le nonne che ci rimpinzavano fino a scoppiare.
Sheeta, la cuoca della clinica, mi ricordava tanto mia nonna .
(…ma questa è un’altra storia che forse nel libro racconteró).

GIORNO 2
Il giorno due pioveva a dirotto, come se il cielo fosse complice di quel luogo, in cui avrei purificato le quattro signorine me :
Śarīra, il corpo
Manas, la mente
Hrdaya, il cuore
Ātman, l’ essenza, il Sé immutabile.
Il temporale faceva da sipario allo sfondo, scuriva il catrame e la terra. Sollevava l’ odore di vita vissuta.
L’ aria fresca dava tregua ai corpi stanchi e schiariva gli occhi brucianti dei lavoratori e dei mangiatori di spezie.
Anche il mio respiro era compiaciuto.
Lo osservavo e osservavo la pioggia dal marerassino, con le gambe incrociate e la schiena ritta e dolente.
Tutto andava lento.
Nessun dovere , nessuna desiderio o passione da soddisfare.
L’ unico dovere a cui avevo scelto di obbedire era la disciplina.
Solo attraverso la pratica e la disciplina uno yogi puó avvicinarsi alla propria direzione, al proprio Dharma.
Qui stavo imparando ad aspettare. Non fare nulla. Lasciare andare le emozioni ed ascoltare, senza domandarmi < perché?> Senza giudicare e giudicarmi.
Prima di partire avevo tirato fuori dalla cantina vecchi quadri.
Qualcuno mi creava imbarazzo, qualcuno tenerezza, altri erano immaturi, ma tra tutti uno mi piaceva. Tutte parti di me, seppellite da tempo.
Qualcosa butterò.
Voglio viaggiare leggera quest volta.
Al giorno due susseguirono il tre , il quattro e gli altri scanditi dalla sveglia delle 6, dal programma serrato e dalla curiosità di riscoprirmi lentamente.
I dottori venivano regolarmente a farvi visita e mi chiedevano in ordine:
se avevo dormito; quanto volte ero andava in bagno; e se avevo sintomi o problemi da dichiarare.
Il cibo ero ottimo, anche se qualcuno lamentava che fosse un pó ripetitivo.
Tra me e me pensavo che forse, dopo pochi giorni, noi occidentali abbiamo la tendenza di sentirci a casa e dimenticando di essere in una clinica a fare una cura cominciamo a pretendere ció a cui siamo abituati.
Osservavo, cercavo di imparare e tenere per me le mie opinioni.
Conoscevo i terapisti sempre di piú, giorno dopo giorno e mi sforzavo di ricordare i loro strani nomi.
Le ragazze erano curiose della mia vita in Italia e io della loro qui.
Ho scritto su ognuno di loro, ció che mi hanno detto e ció che immaginavo.
Ho scritto delle medicine, dei benefici e delle caratteristiche delle erbe medicinali.
Ho scritto tanto nello spazio di questo periodo della mia vita.
Mi sono ripromessa di mantenermi quel vuoto creativo per tirarne fuori qualcosa di buono che possa servire alle persone in cerca di una connessione con la propria vera essenza e con il rispetto della Natura che, a stenti, ancora ci sostiene. (…)

GIORNO 6
C’era voluto un marito devoto, un amore profondo, cortese, silenzioso.
C erano voluti due uomini: il corpo e la creativitá, per dar luce alla mia parte autentica.
C’ era volta l’ assenza di suono, la musica giusta.
C’ era voluto fiducia e devozione per ogni parte di questa storia.
Alla fine ci sarebbe voluto il perdono.
La notte tra il sesto e il settimo giorno non dormii molto.
I sogni vividi correvano veloci, tormentati dal frusciare del vento tra i rami del mango in giardino.
Il rumore del generatore andava e veniva e i corvi, signori della notte, gracchiavano e volavano bassi.
Mi alzai per andare in bagno e poi mi riaggrovigliai nella coperta ruvida.
Mi svegliai un ora dopo e un ora dopo ancora.
Nel 2017 al mio primo ritiro di Vipassana* avevo avuto le stesse sensazioni.
Meditavo e mantenevo un costante silenzio. I ricordi spiacevoli comparivano, diventavano chiari e poi scomparivano.
Come se stare li ferma ad osservare il dolore lo facesse scomparire.
I primi giorni, anche lá, ai piedi dell’ Hymalaya, l’ ansia mi saliva fino a strozzarmi la gola, come se dovessi vomitare.
Nel tempo si era trasformata in dolore, poi avevo cominciamo a sognare cose spaventose.
Alla fine del percorso ero calma, a detta degli altri luminosa.
Nessuno di quei ricordi e dolori era mai piú ritornato. Come se fossero stati grattati via dalla mia memoria.
Doveva essere lo stesso.
Mi convinsi, fiduciosa, che tutto questo facesse parte del processo di pulizia.
Il giorno dopo lo avrei raccontato al medico e mi avrebbe liquido con il solito sorriso e movimento del capo.
La notte passo.
<Madame, medicine! >: la voce di Shintu accompagnata da un toc toc scomposto e fastidioso .
< Gia le sei !> Pensai.
Scivolai, con la coperta attorcigliata in vita, giu dal letto. Aprí la porta stando attenta a non inciampare.
Ci scambiammo il buon giorno e Shintu cominció a prepararlo la pozione magica.
Sminuzzava e pestava nel mortaio le erbe,
appena le aveva ridotte in polvere aggiungeva
un liquido scuro: Kashaya. (…)
Filai in bagno a pulire la lingua e i denti e lo specchio rifletteva il blu degli occhi pesti, insonni.
La pelle era distesa e luminosa, merito del Ghī* che prendevo prima di cena.
Mi guardai sbadigliare, fino a intravedere le tonsille e poi mi trascinai verso il letto per completare il rituale.
Il sapore amaro scendeva lungo la gola.
Shintu continuava a riempirmi il bicchiere di acqua calda, fino a che l ‘ ultima briciola si fosse scollata dalle pareti metalliche.
Seguì la solita routine del Dinacharya* :
Lavavo il naso con lota, acqua e sale. Facevo 108 Ganapaty mantra e 30 minuti di meditazione.
A quel punto erano le 7 am ed entrava Adrash con il the.
Completavo con lo Snehana* in tutto il corpo con l’ olio prescritto e facevo Yoga cercando di non imbrattare il materassino.
Doccia e pronti per la colazione.
Navarakizhi* alle 11 am per rafforzare la muscolatura e gli organi interni.
Taila Dhara* alle 16 pm per calmare la mente e rafforzare il sistema nervoso.
“ Lo yogi , deve rinunciare, senza alcuna riserva, a tutti i desideri prodotti dall’ immaginazione, frenando la totalità dei sensi.” Bagavad gīta C. 6.24

GIORNO 8
Il giorno otto cambiarono i trattamenti e aggiunsero Anuvasana* : clismi di olio medicato per nutrire gli apparati addominali. ( Ho un racconto divertente sul primo clistere, che riserveró per un altra volta. Andó comunque meglio di come speravo).
Il mattino Abyangha* con olio caldo.
Il pomeriggio Ksheera Dhara * al posto del Taila, utilizzando il latte, invece dell’ olio.
La stanza “ Panchakarma n° 1” era nuova e spaziosa. Le terapiste avevano gia preparato gli strumenti e il latte medicato per la terapia.
I Dhara con il latte durarono solo 4 giorni, le qualitá chala, sheeta e laghu ( mobile, freddo e leggero) della medicina aumentavano il mio flusso di pensieri, i sogni e le ore bianche.
Mi distesi appiccicosa.
Il latte fiondava sulla mia fronte come un torrente in piena, attraversando i colli e scivolando oltre le orecchie.
La temperatura era cambiata, tiepida, quasi fredda.
Sembrava piacevole, ma il latte correva e con lui iniziaroni anche i miei pensieri.
Gli occhi chiusi, appena sopra un rotolo di garza e cotone non lasciava passare il liquido oltre le sopracciglia.
Il corpo disteso.
Nudo, con un paio di mutande patetiche di quelle che si usano per i massaggi.
L’ olio faceva brillare la pelle come il mare in amore e il corpo si rilassava sul legno duro del droni antico. (…)
Il latte scivolava e d’improvviso, come lo schiocco che la cascata fa quando tocca i massi, mi scaraventava indietro.
Mi si corrugò la fronte e il liquido fece un piccola deviazione.
C’ ero io li.
Bambina.
Lo sguardo grande, nascosto dietro gli occhiali tondi, smisurati per il mio viso minuto.
Sentivo confusione in testa, sentivo i grandi intorno a me.
Il corpicino imbalsamato e il sorriso plastico . (….)
Pensavano che il mio vestito rosa non fosse carino.
Ridevano di questo.
Pensai che avrebbero dato la colpa a mia madre e invece ero io che avevo insistito quella mattina per indossarlo.
Volevo fare la ruota.
Mi sentii di volerlo puntualizzare.
Per difenderla.
C é aria di festa, forse non devevo dire nulla.
Pensai.
Continuai a sorridere.
Non mi sarei mostrata triste. (…)
Avrei voluto urlare .
Mi si arrició il labbro inferiore e cercai di trattenere il pianto. (…)
Piansi e feci la parte della solita frignona.
Pregarono mia cugina di darmi quella maledetta scimmia per farmi smettere .
Ero insopportabile.
Il latte che scendeva adesso pareva petrolio e le ombre del passato si mescolavano tra loro.
Non mi importava di quel peluche.
La felicità dell’ alba era solita sfiorire non appena il sole era alto.
Mi sforzavo di essere maledettamente simpatica a tutti.
Non mi riusciva molto bene , sceglievano sempre qualcun altro dei bambini per andare in gita .
La terapista mi chiese se andava tutto bene: doveva essersi accorta della mandibola rigida e l’ espressione ingrugnata.
Quei giorni in cui rimanevo sola erano un buon momento. Tagliavo. Cucivo.
Costruivo mondi meravigliosi con tutto ciò che trovavo, per bambole che non ci avrebbero mai vissuto.
Creavo.
Sgattaiolavo in cantina non appena il nonno era fuori e utilizzavo il suo tavolo degli attrezzi . Lo sentivo borbottare quando rientrava, mancava qualche chiodo e qualcosa non era al suo posto. Io ridacchiavo e mi tappato le labbra con entrambe le mani per non farmi sentirci. Gli avrei detto la verità , ma quel mondo era solo mio e lui avrebbe capito.
Lui non mi prendeva mai in giro.
Tornarono le ombre .
Rimproveri.
Battutine.
Risate sottili, maligne e quelle sonore.
Rimanevo, come loro mi avevano dipinta sui sassi, con tutto quel peso addosso: una bambinetta bruttina.
Timidezza, alternata ad un caratteraccio.
Vestita di rosa come una povera principessa, che faceva di tutto per sentirsi parte di quel mondo.
Sbarrai gli occhi, mi ribollita il sangue ,il sudore e il liquido.
Volevo materializzarmi e portare me via da lì. (…)
Respirai forte. Stavo nel presente e ricadevo nel passato, un alternarsi di sali e scendi come nelle montagne russe.
Infine rallentai e la giostra si fermó.
Una luce, come illuminasse con chiarezza quella sagoma infantile.
Dietro gli occhiali nascondeva i suoi mondi a colori, i suoi sogni.
La forza irrequieta le scalciava nel petto.
Improvvisamente la compassione che provavo per quel passato scomodo si trasformó in fierezza.
Ero sempre stata forte!
Avevo fatto di tutto per sopravvivere.
Ero sopravvissuta.
Il vestito rosa nascondeva un armatura.
La dedizione per le arti, la manualità e il corpicino già atletico mi descrivevano silenziosamente. (…)
Mi lavai con la brocca.
L’ acqua calda faceva risplendere i fianchi e li accarezzai come a consolare le ferite di tutte le lame che avevo piantato li.
Negl’ anni le avevo nascoste con l’ inchiostro dei tatuaggi. Andai allo specchio. Mi guardai nuda. Il kajal sporcava le guance.
Gli occhi neri, avevano spalancato le porte della profondità.
Mi senti forte.
Lo ero sempre stata.
Comprendevo quella rabbia adesso. Finalmente un origine alla frustrazione.
Un origine cruda, antica. Quelle persone. Sembravano più grigie adesso, come avvolte nella polvere.
Erano un esercito di ricordi . Non c’era sangue che potesse assomigliare al mio. Antenati.
Vi deposi le armi dinnanzi.
La mia armatura brillava all’ unico raggio di sole .
Mi girai e lasciai il campo con il mio vestito rosa che ancora faceva la ruota.
La feci. Mi sentí una principessa.
… i giorni a seguire furono una meraviglia, non c’ erano visioni, né sogni, c’ era consapevolezza e presenza!
Lo Shiro Dhara* che pulisce le impressioni delle esperienze che ci tappano gli occhi con veli di rabbia e tristezza. Nutre la mente e rafforzare il sistema nervoso. Regala chiarezza e alleggerisce gli anima inquieti.
“Quando la mente è silenziosa, priva di desideri sensoriali, stabile nell’ ātman, si dice che ha raggiunto l’ armonica yogica.” Bagavad gīta 6.18

GIORNO 15
Arrivai alla fine di quest’ esperienza in un battere di ciglia.
Mi gustai le ultime ore seduta, con i piedi incrociati sul balcone del terrazzo della 115.
Mi affezzionai a questa stanza, mi aveva conosciuta a fondo.
Sapevo sarebbe stata dura, ancora per un po’.
Vedevo una strada di montagna davanti a me, ripida.
Mesi fa c’ era il vuoto.
Era bella, incastrata nel bosco che non mi lasciava vendere gli ostacoli. C’ era la gramigna e la clematide gioiosa del viandante.
C’ erano le libellule che volavano basse e guardando il sentiero salire ricordai le parole della mia maestra Cristina:
< Ad ogni tornante vedrai quegl’ uomini più piccoli, quelle case più distanti, quelle voci saranno più confuse.
Ad ogni tuo passo il panorama si aprirá riducendo a insignificanti particolari ció che adesso ti sovrasta.
In cima non ne scorgerai più l’ esistenza.>
La totalità e la luminescenza del cielo persero l’ intensitá. Il suono dei clacson si faceva più distante.
Le voci dei passanti si mescolavano in confusi sciogli lingua.
Nelle ultime ore del giorno si faceva spazio la metafora della fine del mio percorso. Tante coincidenze.
Tanti sogni si erano susseguiti. Mi ero sforzata di stare nel presente e nei giorni lo sforzo lasciava spazio alla naturalezza.
Avevo preso tre chili e quello che piú era cambiato in me é che adesso mi sentivo!
Sentivo il mio corpo sostenermi, mi riconoscevo e allo stesso tempo non ero diversa da tutto ció che mi circondava.
“Quando l’ uomo mortale toccherá il fondo, saranno solo allora che sorgeranno i dubbi sull’ Io egoico, individuale.
Cadranno convinzioni e credenze modellate dalla società e dal nostro godimento.
Sorgeranno allora nuove domande. L’ invocazione a qualche forma divina ci sorprenderà. Una nuova possibilità ci avvicinerà alla parte spirituale di noi stessi. Quella vicina all’ unica vera essenza: Ātman.” (…)
Lascai andare il passato nel momento esatto in cui mi resi conto che mi stava incollato addosso.
Conosco persone capaci di lasciarsi scivolare tutto di dosso, senza sforzo, come acqua fresca, aspettando che si asciughi.
A quelli come me pare un chewing gum nella mente, catrame nei polmoni che obbliga il cuore ad accellerare in mancanza di ossigeno.
Quelli come me devono combattere cercando di arrendersi, ma non perdendo la disciplina e la caparbietá di vincera la battaglia.
Auguro ad ogni anima impaurita di trovare la sua strada, il suo seme, il suo cammino e di incontrare lo Yoga e l’ Āyurveda, io sono qui per condividere!
Perché quando siamo nel Dharma, tutto scorre!
Secondo l’Ayurveda, la disintossicazione è essenziale prima di sottoporsi a qualsiasi altro trattamento importante. Anche per le persone sane, si consiglia di sottoporsi a questo trattamento una volta ogni 5 anni per eliminare tutte le tossine chimiche accumulate negli anni. In alcuni casi, il solo trattamento Panchakarma può essere usato per trattare molte malattie croniche che non richiederanno ulteriori trattamenti in seguito.
*Scopri Tutti i trattamenti li puoi trovare descritti nel sito, nella pagina :
Spero fra qualche anno di riuscire ad organizzare per i miei pazienti un viaggio in kerala , perché ognuno di voi si possa regolare questa speciale esperienza!
Intanto… parliamone!
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